Intervista a Andrea Dojmi

“Siamo esseri creativi, ovvero potentemente fluidi, in continuo movimento, adattamento e scoperta”: la complessità del processo creativo secondo l’artista Andrea Dojmi

Il termine “creatività” è utilizzato oggi negli ambiti più diversi. Potresti dirci che cosa significano per te le parole “creativo” e “creatività”?
Torno all’origine della parola e al suo significato primo. Creare, creazione. Non siamo divinità e non creiamo dal nulla, ma abbiamo a che vedere con un’essenza universale e comune, un bacino immenso, un potenziale naturale di incredibili dimensioni. Possiamo essere molto vicini alla creazione, immergerci in questo spazio a nostra disposizione, (il tutto sta a trovare l’entrata-e), vedere con occhi nuovi e ritornare in superficie con elementi preesistenti ma fino a quel momento del tutto nascosti, per poi unirli con nuove connessioni. Non � un caso se l’atto del creare � stato a lungo percepito nella storia come attributo esclusivo della divinit�; nell’atto creativo un artista viene a contatto con un’essenza trascendentale perch� in questo percorso esiste un momento di percezione diretta, � l’intuizione, che equivale a capire tutto e a non comprendere nulla in un esatto momento-equilibrio tra la coscienza e l’incoscienza. Creare � vedere davvero, e poi tradurre, collegando le proprie visioni. Il “nuovo” concetto tanto legato alla creativit�, � dato proprio da questi legami inediti di elementi riportati in superficie dalla zona del nostro inconscio. L’inconscio � uno spazio vastissimo dove i sensi sono potenti protagonisti. Nella vita di tutti i giorni usiamo le parole per intenderci, la parola ha una forza incredibile perch� evoca, ma � anche un limite per via del suo essere cognitivo; a un artista tutto questo risulta essere un po’ stretto, siamo in un territorio sensoriale, dove i sensi stessi non hanno neanche pi� una propria identit� cos� precisa. Ho un ricordo indefinito fatto di olfatto, vista e tatto che viene dai primi anni della mia vita e non riesco ancora oggi a distinguere questi sensi l’uno dall’altro e non voglio neanche farlo. Siamo materia fluida, non siamo esseri rigidi per natura. Siamo esseri creativi, ovvero potentemente fluidi, in continuo movimento, adattamento e scoperta.

Nella provincia di Roma esiste una �classe creativa�? E, se s�, ha un profilo peculiare, una serie di caratteristiche che possiamo considerare uniche nel panorama romano?
Vorrei che Roma tutta fosse creativa. Se davvero ci fosse una classe creativa ben identificata allora la citt� intera sarebbe gi� diventata un organismo vivo e pulsante che non ha neanche pi� bisogno di una classe di addetti ai lavori, perch� esso stesso propulsore e creatore. Una “classe” potrebbe servire inizialmente a contagiare il modo stesso di vivere di una comunit� intera. Non trovo che Roma abbia un atteggiamento creativo diffuso con e nella vita e mi sembra che un po’ si accontenti di come � (e la capisco pure, in fondo � una citt� stupenda). Roma non � una citt� facile, mancano energie primitive che non siano per forza legate al rappresentare la citt� di Roma, manca un “Palais de Tokio”, manca un vero festival di Cinema Indipendente a livello internazionale. Non servono musei che comprano mostre pronte dall’estero, tantomeno tappeti rossi da far calpestare a stelle internazionali. Servirebbero ricerca, produzione e piattaforme di scambio, non rappresentanze. Ci vuole tempo, terreno fertile, coincidenze ed esigenze legate al momento storico, volont� e uomini disposti a vedere, comprendere, rischiare. Ci vuole intuizione, ecco. Avanti le persone intuitive.

Hai la sensazione che la Provincia sostenga in modo adeguato il lavoro dei creativi romani e riesca a stimolare l’emergere di nuove energie e nuovi talenti?
Vedo che la Provincia � presente, � un segno molto importante. Da imitare per gli altri, Mi piacerebbe che tutto questo fosse contagioso e tanto coraggioso da dimostrare che la contemporaneit� e la civilt� di una comunit� sono nel grado di creativit� della stessa e con essa si misurano. Non si devono solo stimolare l’energia nuova e i nuovi talenti, ma creare strutture solide per “portarli” una volta “scoperti”, altrimenti si vanifica il lavoro stesso della scoperta. E’ un rapporto di amore quello che dovrebbe essere tra chi crea e chi segue i “creatori” (creativi), ci vuole cura nel tempo, intuizione continua, strategia, programmazione, ricerca e passione; il risultato non pu� che essere vincente. Roma dovrebbe poter uscire da Roma e creare piattaforme anche fuori da qui. Ci sono tanti stranieri in bellissime residenze per artisti qui in citt�, beatamente isolati nei propri atelier a vivere un romantico passaggio in Italia. A noi chi ci ospita? Facciamo sempre da soli, abbiamo imparato a muoverci senza supporto, senza istituzioni; personalmente ho sempre fatto del viaggio, dello spostamento, dell’incontro e dello scambio un momento necessario alla mia vita e alla mia ricerca, ma sono anche cosciente di come altrove le istituzioni siano forti, presenti e propulsive per gli artisti. L’impegno della Provincia � un ottimo segno, si inizia da qui. La creativit� implica il superamento di regole esistenti che vengono di conseguenza comprese, accettate e riconosciute dall’intera comunit� in un progredire continuo nel rispetto della natura profonda della comunit� stessa. Roma non � Berlino, non si tratta di scimmiottare qualcosa che non � di qui; ci sono energie creative? Me lo chiedo anche io e sono convinto che serva un attivatore e un “laboratorio” di ricerca e produzione per capirlo. La Provincia deve lavorare sempre di pi� come come un attivatore di energie.

Puoi raccontarci alcune tappe importanti del percorso che ti ha portato ad elaborare il tuo personale linguaggio artistico?
Non � cosa semplice individuare le tappe del proprio percorso fino ad oggi, anche perch� molti passaggi per me fondamentali hanno spesso avuto la propria svolta in episodi assolutamente intimi, apparentemente minimi. Posso dire che alla base di tutta la mia crescita c’� sempre stata l�esigenza incontrollabile di essere “vuoto” e realizzare fughe profonde verso un’essenza universale ma invisibile alla realt� che conosciamo, per poi tornare pieno a tradurre il materiale sensibile riportato in superficie. In tutto questo la cosa pi� difficile e costruttiva � stata capire nel tempo come davvero diventare vuoti per poter agire da veri recettori. Sostituire l�emozione con la vuotezza inizialmente mi sembrava paradossale per un artista. In questo processo la vera parte emozionale � diventata proprio l�essere completamente disposti agli accadimenti. La realt� � materia fluida e per galleggiare, spostarsi, immergersi e crescere � necessario riconoscere se stessi come elementi partecipi di questo unico essere. Il vuoto e la fluidit� sono condizione necessaria per la comprensione universale. Direi che � stata fondamentale la prima parte della mia vita, intendo i primi cinque anni della mia esistenza dove, in una condizione totalmente pre-riflessiva, ho fatto esperienza totale della percezione. Allora ero davvero vicino all’essenza del visibile, a tutto ci� che dopo sarebbe diventato praticamente quasi invisibile. Un’esperienza fondamentale? Cercare quarzi con mio padre mentre camminavamo in montagna; avevo 5 anni. Professionalmente una tappa importante � stata segnata dal periodo dedicato allo sviluppo del progetto “AIMREADY”, divenuto poi un libro di ricerca che pubblicai con l’editore londinese Edward Booth-Clibborn nel 2005. Fu importante iniziare quel percorso e poi chiuderlo, o almeno cercare di definirlo e decidere di pubblicare, dicendomi, “Ok, � un cerchio infinito, per� sono arrivato a un buon punto, sono pronto, chiudo qui”. Prendo AIMREADY come esempio di una importante tappa personale perch� pi� di ogni altro passaggio questo progetto segn� una presa di coscienza di cosa significasse immergersi nella materia fluida ed essenziale del visibile e dell’invisibile cercando di ritornare in superficie sani e salvi. Credevo di tornare indietro e ritrovarmi nel luogo da dove ero entrato, invece a distanza di spazio e di tempo tutto era cambiato, ero altrove, avanti, diverso. Con un altro lungo salto temporale la stessa cosa � accaduta con “The isle of the Dead“, la personale realizzata presso CO2 Gallery; mi rendo conto solo adesso quanto questo lavoro rappresenti un momento importante per me; mi sono scoperto diverso e ulteriore, ho perso colore e mi sono corroso, ho sofferto e adesso parlo sotto al sole come chi � stato al buio per molto tempo. Sono pi� vecchio di prima e mi sono risvegliato pi� nuovo di prima; � una strana sensazione che rende spessi ma leggeri, coscienti e al tempo stesso completamente liberi da ogni residuo cognitivo, ignoranti, liberi. Selvaggi, saggi.

Come nasce la tua collaborazione con CO2 Contemporary Art?
Un giorno ho scritto a Giorgio Galotti di CO2. Mi piaceva il suo approccio diretto con gli artisti, traspariva attraverso il lavoro prodotto dalla galleria e ci vedevo qualcosa di “selvatico”, necessario e sincero. Un buon segno. Cos� � stato il primo contatto. Diretto. Ci siamo incontrati e abbiamo imparato in pochissimo tempo a comprenderci. La personale “The Isle of the Dead” � stata uno spleen con alla base un rapporto di fiducia reciproca, curiosit�, volont�, inquietudine, ignoranza, conoscenza, comprensione e umilt�. Sei mesi in cui siamo cresciuti di due anni. Sono felicemente invecchiato e mi ritrovo pi� giovane di prima. Non volevamo fare una mostra, a me non interessa fare mostre, ma vivere e magari “inciampare” in intuizioni solide, che sa volte si chiamano “sculture” e in movimenti fluidi e brucianti che prendono la forma di film. Mi interessa vivere. Sprofondare ogni volta di pi� e ogni volta riemergere pi� forte, pieno e al tempo stesso vuoto. Essere vuoti � fondamentale per poter agire come recettori sinceri e selvaggi. Non � facile essere selvaggi in una citt� senza mangrovie e giungla ad invadere le strade, ma l’unica cosa che riesco davvero a fare e essere me stesso. Ho imparato ad adattarmi come la seta. Volevamo e vogliamo produrre. Una mostra � qualcosa di necessario e non la si realizza fin quando non c’� un intuizione, un desiderio e un’esigenza profonda. Una volta presa coscienza allora entra in gioco anche la volont�. Era il momento giusto, tutto qui. A volte le cose vanno da s� ed � fondamentale capire quando lasciarle andare e quando invece prendere in mano ogni singolo momento della giornata.

Nella tua ultima installazione, The Isle of the dead, lo spazio della galleria � ridisegnato intorno ai quattro elementi che la compongono. Reperti archeologici del nostro presente evocano mondi tra loro lontani: una palestra, il parapetto di un edificio anni ’70, un bunker.�Perch� hai scelto di condurre il visitatore proprio attraverso questi ambienti? Che cosa raccontano del nostro presente e dell’individuo che vi abita?
The “Isle of the Dead” si sviluppa intorno a una scultura-bunker, un reperto archeologico di un passato recente che diventa immediatamente vivo recettore di inquietudine per un futuro molto vicino. Ho lavorato da scultore per arrivare alla forma che soddisfacesse un’intuizione che era in me da tempo. Il bunker, o meglio, la scultura, si � rivelata da s� e ha scelto di non essere, creando un “non luogo”, uno spazio estremo, un ritratto brutale e apparentemente disumano. Questa “isola-scavo” e gli elementi che lo alimentano sono di fatto il ritratto di un uomo, una sintesi tra ambiente e psiche e definiscono lo spazio estremo di cui parlo. �The isle of the dead� vive e muore in piena luce, quella elettrica della galleria, senza nessun altro tipo di intervento. Il nero all�interno del cunicolo � la conseguenza della copertura parziale di uno scavo. In questa luminosa, buia e costante tensione ho iniziato a vedere le sculture emergere a tratti dalle mura e dal pavimento, per poi sfaldarsi nuovamente nel bianco, mentre il bunker-scultura, fulcro di tutto l’insieme, acquistava sempre pi� potenza trasformandosi in un buco nero che ingeriva luce. Allora ho estratto il corrimano corroso che vedevo in quel nero e l�ho portato alla luce, il bianco del parete ha definito una forma potente e autonoma, quella di “STALKER”. �STALKER� � una scultura “salvata” dal buco nero che si era creato in galleria. �UNI 7697″ invece � il solo elemento-ricordo, lontanissimo, in tutto questo insieme; l�immagine di una vita umana che � diventata forma, un diamante industriale incastonato nella balaustra di una balconata. �Atlantik Wall� � una macchina da palestra e guerra per una desolata spiaggia in Normandia o per il cortile del Virginia Tech Institute. Non si tratta di una sequenza di sculture tanto meno di un’installazione, ma di un “organico di forme”. Forse Ho costruito un magnete, non ne sono stato del tutto cosciente fino a lavori terminati. Capita spesso che mi affaccio in galleria per controllare che il bunker non abbia inghiottito la luce e la materia, compresi assistenti e gallerista. Una mostra � e dovrebbe sempre essere un sistema che crea (o divora) energia. �The Isle of the Dead� lavora con l�energia e lo fa senza sosta in un silenzio assordante fino alla propria fine. Si tratta di un sistema che segue le leggi dell’universo e come ogni cosa in natura avr� una fine.

Quali progetti hai per il futuro immediato? Continuerai a lavorare a Roma e per la citt� di Roma?
Sto lavorando a un progetto personale su Roma, un intervento fisico, tridimensionale, mimetico, potente. Non posso dire altro al momento, ma continuer� a lavorare in citt�. Altri lavori mi porteranno invece lontano da qui, in particolare la lavorazione di una nuova pellicola, un film, soprattutto negli USA, ancora una volta, dopo l’esperienza dello short movie “ELY” del 2010.

ROMA PROVINCIA CREATIVA