FABRIZIO GRIFASI

“L’attività culturale, innovativa, ideativa fa bene a chi la partecipa” spiega Fabrizio Grifasi, direttore della Fondazione Romaeuropa, in apertura della rassegna Metamondi e in attesa di Digital Life

Insieme a Fabrizio Grifasi riflettiamo sul rapporto tra la creatività e il territorio.

Vuole tentare una definizione di creatività?
Quell’insieme di pratiche e idee che uniscono utilità, concretezza e fantasia determinando innovazione e sviluppo.

Quali sono gli elementi fondamentali che definiscono l’industria creativa nel campo della performance e degli eventi?
Ricerca, pluralità dei linguaggi e delle tecniche, capacità di esplorare scenari inconsueti, rapporto con il pubblico.

Quali sono i valori “altri” che lei collega alla creatività?
Superamento dei confini, rischio nel nuovo, capacità di leggere e interpretare fenomeni molto diversi del nostro tempo e di rielaborarli, utilità condivisa dell’esperienza generata.

L’attività culturale, innovativa, ideativa fa bene a “cosa” secondo lei.
Fa bene a chi la partecipa perché permette un’allargamento dell’universo cognitivo e sensibile e fa bene alla collettività per il valore, al tempo sociale e economico, che genera.

Nella provincia di Roma esiste una “classe creativa”? E, se sì, ha un profilo peculiare, una serie di caratteristiche che possiamo considerare uniche nel panorama romano?
A Roma e nella sua provincia esiste un “humus” creativo che trova nella metropoli allargata il terreno fertile per il suo sviluppo, molto spontaneo e che quindi va conosciuto e aiutato. Nella nostra provincia le peculiarità sono sicuramente legate all’unicità della sua storia, alla struttura sociale del territorio, alle sue attività economiche consolidate, alla forte presenza di Università e anche a una specificità legata alla “leggerezza di vivere” tipica del nostro ambiente urbano.

Quali sono, secondo lei, gli indicatori più interessanti dello stato di “salute” della creatività romana?
Sviluppo di nuove imprese nei diversi settori creativi, capacità di generare una offerta nuova e utile, capacità di “esportare” le proprie esperienze al di fuori dell’ambito metropolitano confrontandosi con mercati e scenari nazionali e internazionali, capacità di generare comunità di condivisione e forza comunicativa.

A che cosa dovrebbero portare (o hanno portato) gli investimenti fatti e da fare in campo creativo?
Innanzitutto ad una conoscenza più organica di tutto quanto si associa alla creatività in senso ampio, includendo esperienze, pratiche e comportamenti molto diversi. Poi alla profilazione di interventi mirati per i singoli settori, con la scelta di aree di priorità. Infine, all’utilizzo di strumenti propriamente economici per valorizzare le “best practices”.

Esiste un caso estero o italiano di “trattamento” riservato alla classe creativa a cui dobbiamo guardare con successo?
Come politica di sistema e capacità di farne oggetto di una riflessione  e narrazione originaria suggerirei “Innovation Valley” che racconta con efficacia le pratiche dell’innovazione in una area molto varia e dinamica del nostro paese che è quella costituita da segmenti del Veneto, del Trentino e del Friuli.

Esiste un’esperienza che considera esemplare per le sue competenze e capacità? Quale?
La prossima edizione di Digital Life che apriremo il 26 ottobre all’ex Gil, all’Opificio Telecom e al Palladium Università Roma Tre vuole esattamente rappresentare una progetto innovativo di mostra, talk e eventi che tengano assieme artisti, creativi e aziende ad alto contenuto tecnologico e essere punto di riferimento per pubblico e operatori a livello nazionale.

Fabrizio Grifasi, nato a Napoli nel 1960, è oggi direttore generale e creativo della Fondazione Romaeuropa. La Fondazione Romaeuropa, nata venticinque anni fa, si occupa di promozione e diffusione dell’arte, del teatro, della danza e della musica contemporanee. Con Romaeuropa Festival ha portato nella capitale i migliori spettacoli di musica, video arte, danza e teatro di tutta Europa. Per la Biennale dei Giovani Artisti del Mediterraneo ha collaborato con l’Arci Giovani e ha prodotto eventi di Performing Art per diversi Festival e teatri, dall’Opera di Parigi al Teatro National di Chaillot. È inoltre membro del Consiglio di Amministrazione della Fondazione Fitzcarraldo, dell’Artistic Advisory Board della Japan Foundation, dell’Ietm (Informal European Theatre Meeting) e del network europeo Temps d’Images. È esperto di arti performative, eventi, e si interessa molto delle prospettive per i giovani artisti, dell’importanza del web 2.0 per l’arte, e di come le città, in particolare Roma, possano rappresentare fulcri creativi per i giovani e per gli artisti. È partner di importanti reti e network italiani ed europei quali Ietm, ItaliacFestival, il Reseau Varèse, per lo sviluppo della musica e dell’Opera contemporanea, il Reseau Temps d‘Image, Festival europeo promosso da ARTÈ il canale televisivo franco-tedesco, European Foundation Center, che raggruppa oltre 200 fondazioni culturali europee e della European Festival Association.
http://romaeuropa.net/festival

PATRIZIA DI COSTANZO

La città, il territorio e la creatività viste dall’architetto, esperto in design, come una forza propulsiva di idee che permette un passo avanti, dalla creatività all’innovazione, e diventare imprenditoria.

Vuole tentare una definizione di creatività?
Oggi, la parola creatività e l’aggettivo “creativo” ricorrono frequentemente nell’uso non specialistico della conversazione quotidiana: “Il discorso dei media riflette e alimenta questa diffusione parlando ormai di creatività in cucina, in giardino, nell’abbigliamento, nei rapporti di coppia, nell’educazione dei figli, nel lavoro e nel tempo libero”. Tante sono le definizioni che filosofi, intellettuali, psicologi e studiosi hanno elaborato, in merito. Dal mio punto di vista, persona creativa non è soltanto, ‘l’artista’ ma chiunque abbia la capacità di vedere in modo diverso, con un cambio di prospettiva, che guardi il mondo senza schemi preordinati e inibitori, seguendo il proprio istinto, ricercando la propria libertà.

Quali sono gli elementi fondamentali che definiscono l’industria creativa nel settore del design e dell’artigianato?
La rivoluzione in atto nel mondo produttivo parte dalla crescente capacità di giudizio estetico del consumatore, che – anche e soprattutto attraverso l’uso della Rete e delle logiche del web 2.0 – diventa autore della propria esistenza e critico competente per quanto riguarda prodotti e servizi. “Questo passaggio d’epoca e cambio di paradigma che viene segnato dalla temperatura fruitiva delle persone, pone al centro per tutte le aziende – e non più solo per quelle di punta – il tema del design thinking e quello del rigenerare valore”. Si affermano ormai con chiarezza i valori di un consumo che concilia benessere, sensibilità ambientale e percezione virtuosa fondata sulla reale qualità del prodotto. Nell’era della flessibilità, con cambiamenti epocali che ci vedono spettatori attoniti, con lo scardinamento di equilibri che ci sembravano consolidati, con mutamenti altrettanto incisivi nei mercati e tra i consumatori, si devono prendere le distanze dai vecchi stereotipi della serialità, e proiettarci verso un “nuovo paradigma con regole nuove” (G.Fabris) prendendo come scala di riferimento i localismi: piccoli luoghi che possiedono grandi capitali e riserve di ragioni e saperi e competenze antiche che possono essere spese su qualunque mercato, a patto di sapersi confrontare anche con scenari evoluti e globali. Da tutto ciò ne consegue che il Marketing, il principale strumento con cui l’impresa si raccorda con il mercato, è da tempo in crescente difficoltà. Occorre prenderne consapevolezza, elaborare nuovi paradigmi come afferma Giampaolo Fabris, “il rischio altrimenti è che il marketing combatta le sue battaglie con le armi del conflitto precedente”. Il mercato non è altro che il sintomo collaterale del sociale, il consumatore non esiste, esiste l’individuo che fra le tante cose che fa durante la giornata acquista e consuma anche dei prodotti. Quindi l’unica prospettiva è togliere al marketing la logica soltanto aziendalistica per farlo diventare anche una scienza sociale.

Quali sono i valori “altri” che lei collega alla creatività?
L’attività culturale, innovativa, ideativa fa bene a “cosa” secondo lei?

Il “saper vedere” (come dice Erich Fromm) è fondamentale nel nostro concetto di creatività umana. Naturalmente non è un “vedere” con gli occhi, ma un percepire molto più profondo, con le proprie emozioni, con tutto sé stesso. E quindi la relazione creativa col mondo, essenza della creatività, è fondata su una comunicazione empatica, emozionale, molto complessa e profonda, che va molto al di là della semplice registrazione fredda e neutrale della realtà esterna. “La creatività è un orizzonte”,? “La creatività è la risposta che apre”(aforismi di Aldo Carotenuto) è il mezzo di identificazione delle cose naturali e artificiali: si vestirà di linguaggio, di musica, di scultura, di scrittura, di mimica, di danza; si chiamerà gesto, segnale, figura, impronta, indizio, testimonianza, memoria, simbolo, ma sarà il segno di una realtà che getta il ponte verso la nostra mente.

Nella provincia di Roma esiste una “classe creativa”? E, se sì, ha un profilo peculiare, una serie di caratteristiche che possiamo considerare uniche nel panorama romano?
Nel dibattito politico e culturale sul futuro delle grandi città, il tema della creatività è diventato dominante, innescato da studi e approfondimenti di ricercatori che hanno il merito di riportarci alla realtà della situazione italiana. Roma ed il suo territorio da sempre hanno rappresentato il fulcro germinale di movimenti artistici e culturali di varia natura, dal jazz, alla cultura alta, a quella popolare, alle sperimentazioni, al teatro d’avanguardia, alle mostre e tutto quello che un amante del sapere può desiderare, in una misura di gran lunga superiore a qualunque altra città italiana, senza ostentazione, con ironica leggerezza. Di contro è sempre mancato il ‘sistema impresa’ che concretizzi tanta intuizione e proposta.

Quali sono secondo lei gli indicatori più interessanti dello stato di “salute” della creatività romana?
L’apertura di spazi destinati alla presentazione di mostre ed eventi di respiro internazionali, la riqualificazione di spazi con rinnovate destinazioni d’uso, l’editoria, una realtà fortemente in espansione sul territorio, le scuole che producono innovazione, in una città, a volte sopraffatta da un passato tanto ingombrante, fatto di imperatori e papi. Questo aiuta a sviluppare in ciascun cittadino la consapevolezza di vivere in un territorio ricco di potenzialità e disporre di tutti gli strumenti necessari per mettere in atto qualunque iniziativa utile alla crescita individuale e collettiva che permetta la valorizzazione dei talenti e delle creatività del nostro territorio.

A che cosa dovrebbero portare (o hanno portato) gli investimenti fatti e da fare in campo creativo?
Supportare e valorizzare progetti che creino produzioni di nicchia per la serie di qualità, deve essere sempre più il compito e l’impegno condiviso, sia da parte di Enti e Istituzioni, pubbliche e private, sia da chiunque sia interessato a premiare e promuovere la ricerca creativa. Ad aumentare le possibilità di resistere, in tempi così difficili, alle imprese impegnate al mantenimento della tradizione locale, e ai giovani di sperimentarsi nelle proprie vocazioni per aiutare con le loro idee innovative a migliorare la vita del singolo e della collettività.

Esiste un caso estero o italiano di “trattamento” riservato alla classe creativa a cui dobbiamo guardare con successo?
La creatività deve diventare imprenditoria, è la forza propulsiva delle idee che permette un passo avanti, dalla creatività all’innovazione. Le città sono importanti per la creatività. Ad esempio, Barcellona, Edimburgo, Amsterdam sono tre città che hanno scelto una vocazione: hanno in comune il ruolo che la cultura può avere nello sviluppo sociale ed economico di un’area metropolitana. Un altro esempio è Linz, città industriale austriaca dedita per molto tempo solamente all’industria dell’acciaio, che si è ben riconvertita con il Festival Ars Electronica, diventato un successo internazionale. Isabel Roig (Barcelona Centre de Disseny): “Il design è il link perfetto tra creatività ed innovazione. Il design è un modo di pensare e di risolvere problemi. Nel Barcelona Centre de Disseny, è importante la cooperazione tra pubblico e privato. Negli ultimi dieci anni, a Barcellona, ci sono stati molti progetti per migliorare l’accessibilità al turismo. Una design city non significa vivere in un luna park. Molti talenti sono attratti a Barcellona e questo consente di creare interessanti team multidisciplinari”. Robert Marijnissen (programme manager creative cities, Amsterdam Area): “La creatività e l’innovazione sono mentalità. Quando ho iniziato a lavorare ad Amsterdam, sono rimasto stupito dal fatto che le persone dei vari dipartimenti non si conoscessero. “Ho cercato di favorire i contatti faccia a faccia. Connettere segmenti diversi è importante: stiamo connettendo diverse communities nell’area di Amsterdam, anche con le tecnologie 2.0. Se si coinvolgono le persone di Amsterdam a lavorare sulla città in cui vorrebbero vivere, è più facile partire. Bisogna stabilire due o tre punti chiave e poi favorire l’osmosi tra amministratori e tessuto sociale, dove ci sono anche i creativi. Persone, soldi, idee”.

Esiste un’esperienza che considera esemplare per le sue competenze e capacità? Quale?
La mia esperienza sul design, come processo e nelle declinazioni delle problematiche aziendali, si è formata e concretizzata all’interno della Pallucco, azienda di complementi d’arredo, di Paolo Pallucco, dalla fase fondativa fino alla sua evoluzione. La stessa visionarietà della scuola imprenditoriale italiana di Adriano Olivetti, slittata alla fine degli anni ’70, con un percorso distintivo, lungo i grandi cambiamenti del design italiano. Nuovi segni, indelebili e sorprendenti, nella storia del design convivono accanto alle riedizioni di pezzi storici degli anni ’20 e ’30 di Jacobus Johannes Peter Oud (una mia ricerca agli inizii degli anni ’70), Mariano Fortuny, Eileen Gray, Mallet Stevens, Renè Herbst e dei maestri del razionalismo italiano come Giò Ponti, Mario Asnago e Claudio Vender. Dall’immagine coordinata che ha visto attore Bob Noorda con le fotografie di Pino Abbrescia, allo stile unico nei cataloghi con le fotografie di Peter Lindbergh, i testi scelti a commento del poeta Rilke, le presentazioni fuori Salone del Mobile, al mattatoio abbandonato di Milano, con il coinvolgimento di Henri Alekan (direttore della fotografia di progetti cinematografici, come “Il cielo sopra Berlino” di W. Wenders) e le scenografie di Pina Baush e Peter Pabst. Tutto questo quando ancora non esistevano “Tortona” e “i fuori Salone” ma solo qualche mostra in ambiti specifici e manifestazioni organizzate negli showroom aziendali milanesi. Il coinvolgimento è trasversale nei vari campi delle arti, anche Rei Kawakubo, fondatrice della casa di moda “Commes des Garçons”, concede per la prima volta la sua firma ad una linea di arredi e un suo fedele amico e collaboratore, il grafico Toji Murata diventa il grafico del nuovo catalogo Pallucco. Risultato ed immagine di una realtà industriale e di una coerenza concettuale che nel corso di otto anni ha subito per tappe successive, tutte significative una evoluzione costante. Molte altre esperienze successive, con altre aziende di riferimento, mi hanno portato, oggi, a rintracciare segnali significativi nelle imprese artigiane che esprimono la cultura e le tradizioni più profonde, in un mondo in cui dimensione globale e locale sempre più si intersecano. Dare conto, attraverso l’organizzazione e la curatela di mostre, di una selezione di eccellenze, nate appunto dalla attenzione rivolta alla creazione di oggetti che denotano una sorta di complicità tra progetto, manualità e fantasia, ricreare e ristabilire forme di intensa e proficua collaborazione tra i designer ed il mondo artigianale produttivo locale, è l’obiettivo che mi sono posta da qualche anno. Le istituzioni dovrebbero cogliere questi sondaggi e tracciare concretamente l’indirizzo futuro di una rinnovata imprenditorialità, che accomuna impresa, società e territorio per partecipare come soggetti attivi e protagonisti di un piano di sviluppo economico sostenibile, investendo tutte le energie per superare il nocciolo duro del grande tema del made in Italy, oggi.

Patrizia Di Costanzo, nasce a Roma dove vive e lavora. Architetto e membro di giurie in concorsi nazionali, è curatrice di mostre e manifestazioni sul design in Italia e all’estero. È stata chiamata ad intervenire sul tema del design in televisione e radio, oltre a svolgere attività giornalistica come freelance. Dopo aver ricoperto il ruolo di product manager e direttore commerciale per aziende italiane leader nel settore del design, oggi Patrizia Di Costanzo è consulente nelle strategie di marketing creativo e comunicazione. Nel 1990 ha organizzato presso spazi museali quali: il Palazzo delle Esposizioni a Roma, il Palazzo Ducale di Genova, il Museo Emilio Greco a Orvieto ed il Centro Culturale “Le Zitelle” di Venezia, la selezione e la vendita di oggetti di design e di autoproduzioni di artisti, prima iniziativa italiana di cogestione tra enti locali ed impresa privata. Nel 2000 è stata ideatrice e direttrice del magazine “solointerni” (Terra Nova Editore, Roma) mensile di arredamento, architettura, arte, design ed informazioni culturali sulla città di Roma ed il suo hinterland. Poi fonda lo studio pdc_progetti di comunicazione, che si occupa di architettura pubblica e residenziale, interiors, product, exhibit e graphic design, comunicazione e marketing. Fino al 2010 ha insegnato Semiotica presso l’Istituto Europeo di Design di Roma, dove attualmente è docente di “Nuovo Marketing” e Sociologia del consumo; presso altri istituti tiene seminari specialistici.

GIUSEPPE ALLEGRI

Autore del libro “La furia dei Cervelli”, assieme a Roberto Ciccarelli, approfondiamo con lui il fenomeno dell’emigrazione intellettuale che porta, soprattutto, alla riflessione sulla radice dell’esclusione di milioni di persone dal patto sociale in un Paese travolto da una crisi senza precedenti

Meritocrazia negata?
Lavoro così atipico da non arrivare a un “tipico” reddito?
Mancato riconoscimento dei lavoratori della conoscenza?

C’è chi non si rassegna. Sono Giuseppe Allegri e Roberto Ciccarelli che hanno scritto un libro “La furia dei Cervelli” (manifestolibri, 2011), in cui si affronta la questione di una possibile politica contro la crisi, rovesciando il concetto di “fuga” con quello di “furia”. Il libro non si sofferma, quindi, sul fenomeno dell’emigrazione intellettuale, ma va alla radice dell’esclusione di milioni di persone dal patto sociale in un Paese travolto da una crisi senza precedenti, attraversato da movimenti studenteschi e universitari, del lavoro autonomo, del mondo della cultura e della conoscenza.

Il libro si rivolge a coloro che lavorano con contratti atipici, con la partita IVA, con le mille formule della collaborazione e del progetto; che svolgono un lavoro nello spettacolo, nella consulenza, nella formazione, nella ricerca, nel commercio e nell’intermediazione, cui si aggiungono i migranti che lavorano nelle micro-imprese e nel lavoro domestico o di cura della persona.

Il Quinto Stato, come lo chiamano gli autori, è costituito da lavoratori e lavoratrici precari-e, intermittenti, flessibili, autonomi, che solo a Roma sono circa 240 mila persone (statistiche del 2008) e spesso si raccolgono intorno ad associazioni che rappresentano il variegato mondo delle attività professionali autonome, come Aiap (Associazione Italiana Progettazione per la Comunicazione Visiva) e Acta (Associazione Consulenti Terziario Avanzato), che riunisce tutte le categorie del lavoro indipendente e autonomo di servizi e consulenze alle imprese e alla pubblica amministrazione.

La furia dei Cervelli è anche un tentativo – forse il primo dopo anni di movimenti frammentati e spesso di isolamento – di ricomporre e costruire una coalizione per autorganizzare questi soggetti esclusi dalla cittadinanza sociale. Così, a partire dal libro, è stato creato un blog (http://furiacervelli.blogspot.com/), quindi un sito che vorrebbe diventare piattaforma operativa (http://www.ilquintostato.it/) per dare vita a un network politico e sociale: un progetto animato da una vitale e “combattiva comunità di freelance, lavoratori indipendenti e di cittadini non riconciliati con la vita al tempo della crisi e dell’austerità” come si legge nello stesso blog. Approfondiamo con Giuseppe Allegri:

Partiamo dal titolo. A cosa fa riferimento la “furia”?

Il gioco di parole evidente è il ribaltamento della retorica del piagnisteo italico sulla “fuga dei cervelli”. Formula utilizzata dalla classe dirigente di questo Paese per disprezzare il lavoro culturale, di ricerca e formazione – che dovrebbe essere essenziale per il miglioramento di una società – ed eliminare dallo spazio pubblico un paio di generazioni di “nuovi lavoratori”, trattandoli come pezzenti, incompresi, marginali, “costretti alla fuga” da un Paese che non li comprende e valorizza.

E allora col nostro libretto, Roberto Ciccarelli ed io, proponiamo di ribaltare queste passioni tristi invocando la lunga tradizione degli “eroici furori” di Giordano Bruno, quel “divino furore” che da sempre serpeggia nelle strade di Roma e che si è manifestato al Teatro Valle, occupato da lavoratrici e lavoratori dello spettacolo lo scorso giugno, proprio a due passi da Campo dei Fiori, dove il Nolano venne arso vivo. C’è insomma una sapiente trasmissione di pensieri e pratiche eretiche, che attraversano i secoli e incrociano i soggetti irriducibili all’esistente, contro “la fabbrica dell’obbedienza” – quel “lato oscuro e complice degli italiani”, per dirla col formidabile e passato troppo sotto silenzio, recente lavoro di Ermanno Rea (Feltrinelli, 2011).

L’idea della “furia dei cervelli” ci è venuta in occasione di un’assemblea di lavoratori dello spettacolo e della cultura, tenuta al Teatro Valle Occupato di Roma nel settembre scorso e che il buon Christian Raimo aveva proposto di chiamare, appunto: “cervelli infuriati o la furia dei cervelli”.

Il cervello – il suo uso, la sua cura, il suo deperimento – è il nostro braccio, di lavoratori dell’immateriale, delle relazioni, della formazione, condivisione e trasmissione di cultura e conoscenza. Per dirla col Flavio Santi, del potente Aspetta primavera, Lucky (Edizioni Socrates, 2011), nel suo dialogo con un nostro, recente, antenato, Luciano Bianciardi: «Caro Bianciardi, tu non puoi saperlo, ma noi siamo la prima generazione di intellettuali-operai». “Un pezzo, un culo”, per citare l’indimenticabile Gian Maria Volontè di La classe operaia va in paradiso (http://www.lavoroculturale.org/spip.php?article161).

Che cosa vi ha spinto a scrivere questo libro?

L’urgenza di mettere per iscritto un’autonarrazione dei soggetti protagonisti delle nuove forme del lavoro. Il libro è anche una presa di parola collettiva, un “processo di auto-riconoscimento e soggettivazione”, di donne e uomini entrati nel “mercato del lavoro” a cominciare dagli anni ’90 dello scorso secolo. Soprattutto l’esigenza di raccontare in prima persona la voglia di protagonismo di queste generazioni, che provano ad inventarsi forme di buona e degna vita, qui e ora. E nel libro ci sono interviste, incontri, esperienze: dal Valle occupato – dove è stato materialmente scritto, la scorsa estate – alla Freelancers Union dei lavoratori indipendenti USA; dai movimenti degli studenti degli ultimi anni, alle reti di ricercatori precari e strutturati; dalle traduttrici, alle artiste; dai formatori e dalle redattrici, alla piccola, ma innovativa, autorganizzazione imprenditoriale. È un “noi” che viene fuori dal libro: Do it yourself, ricerca di indipendenza e autonomia, aspirazione alla cooperazione sociale e al mutualismo, per affermare nuove modalità di vita in comune, qui e ora.

Chi sono i “furiosi” e cosa reclamano?

I furiosi sono i “non garantiti”, il precariato, le intermittenti, i lavoratori autonomi, gli “atipici”, le contrattiste ed assegniste, i consulenti: flessibili a tutti i costi. Siamo figli delle riforme del lavoro di metà anni ’90, della gestione separata INPS – con miliardi di euro in attivo e nessuna erogazione di servizi – di un sistema che riconosce la cittadinanza solo a chi ha un lavoro standard: e ora sempre meno anche a loro. Senza diritti, voce, dignità: siamo stati l’avanguardia su cui sperimentare il saccheggio delle garanzie e tutele, che vengono ora sottratte a coloro i quali venivano definiti “garantiti”. Per questo parliamo di “Quinto Stato”: filiazione eretica e irriducibile al Quarto Stato, molto più vicina ai “Quartari” descritti da Luciano Bianciardi nella sua formidabile trilogia della rabbia (Lavoro culturale, L’integrazione, La vita agra). Siamo “vaselina pura” nel sistema incancrenito della “società dello spettacolo diffuso” (per dirla con Bianciardi e Debord), ma vorremmo essere sabbia negli ingranaggi del capitalismo finanziario e del suo immaginario.

Per questo reclamiamo diritti, reddito e tutele sociali per una nuova cittadinanza sociale, ma pensiamo anche che la pratica dell’autorganizzazione dal basso e diffusa possa permetterci di sperimentare nuove forme di buona vita.

Per rilanciare queste tematiche avete creato anche un blog con l’intento di formare un network. Quali sono le pratiche che proponete per contrastare la politica attuale e le mancate forme di riconoscimento e di reddito che riguardano i lavoratori precari della conoscenza?
Sono nate nuove idee per individuare dei prototipi o dei modelli che portino a una centralità dei saperi e valorizzino il lavoro intellettuale?

C’è la scommessa di tenere insieme forme di autorganizzazione del Quinto Stato, con l’esigenza di riappropriazione sociale ed economica di quella ricchezza che produciamo e viene puntualmente saccheggiata dal dominio del privato-corporativo – ormai finanziarizzato – e del pubblico-burocratizzato – oramai indebitato oltre ogni salvezza. Per questo vorremmo sperimentare la creazione di nuove istituzioni del vivere in comune: oltre la subordinazione alla speculare corruzione dell’individualismo proprietario/pubblico parassitario c’è lo spazio dell’autorganizzazione sociale che si riappropria di spazi, ricchezze, tempi di vita. Sono quelle che chiamiamo le nuove istituzioni del comune: che siano teatri del Settecento abbandonati dal pubblico statale (il Valle); spazi di co-housing e co-projecting del nuovo lavoro immateriale e creativo; scuole e caserme in dismissione, proprietà pubbliche cartolarizzate: dovrebbero esserci movimenti cittadini che si riapproprino di questi luoghi per renderli nuove piazze comuni, ateliers della liberazione dal lavoro e dalla sua mancanza. Dinanzi ai milioni di Working poors di tutte le forme del lavoro e alla prospettiva di una disoccupazione di massa di una (eventuale) Jobless Recovery dobbiamo sperimentare quella che Ivan Illich chiamava Disoccupazione creativa già nel 1978. È il terreno di immaginazione costituente per la ricerca di autonomia, indipendenza, cooperazione che ci aspetta, in cui il Quinto Stato contribuisce alla creazione di “coalizioni sociali” tra quelle porzioni della società irriducibili all’esistente: una sorta di ribaltamento del principio di sussidiarietà orizzontale in favore dell’autorganizzazione sociale dal basso. Queste coalizioni sociali devono riprendersi le ricchezze – economiche, culturali, sociali, di tempi di vita, etc. – sottratte dall’iperliberismo istituzionalizzato. Parliamo a tutta la cittadinanza, partendo dalla nostra condizione ed esperienza individuale-collettiva: veniamo da un ventennio in cui abbiamo subito processi di impoverimento e precarizzazione che ora si diffondono a tutte le classi subalterne. Siamo convinti ci sia l’urgenza di coalizzarsi per dire e praticare dei NO collettivi ai ricatti: della povertà, della solitudine, della subordinazione al lavoro e alla sua assenza, della mancanza di diritti, reddito e dignità.

Chi sono i soggetti che ne fanno parte del network? Sono emerse delle realtà più strutturate oltre ai furiosi di cui hai parlato, come ad esempio reti, associazioni o organizzazioni di categoria del lavoro autonomo e intellettuale?

Dal nostro blog (http://furiacervelli.blogspot.com/) sta nascendo anche un’altra piattaforma, un nuovo spazio pubblico virtuale, che vuole essere immediatamente “fisico”: http://www.ilquintostato.it/. È una piattaforma operativa: snodo di creazione di immaginario e di invenzione di pratiche quotidiane del Quinto Stato. In questi ultimi anni con Roberto abbiamo lavorato alla creazione di connessioni reticolari orizzontali tra lavoratrici/lavoratori indipendenti, autonomi, precari-e. Abbiamo incrociato e stiamo lavorando assieme a collettivi di artisti, creativi, lavoratori dell’arte che si organizzano per creare le possibili coalizioni sociali a venire, come i Lavoratori dell’arte (http://www.facebook.com/lavoratoridellarte) che abbiamo incrociato a Milano. Quindi siamo stati dentro processi come quello di Acta (Associazione dei Consulenti del Terziario Avanzato http://www.actainrete.it/), specificamente nel suo nodo romano; l’esperienza dei grafici di Aiap nel Lazio (Associazione italiana progettazione per la comunicazione visiva http://aiap.it/); collettivi di precari-e e intermittenti del giornalismo, come quello romano di Errori di stampa (http://erroridistamparm.blogspot.com/); le reti dei precari della ricerca, degli archeologi (l’Associazione Nazionale Archeologi, http://www.archeologi.org/), dei movimenti cognitari dell’ultimo decennio, etc. Sono processi entusiasmanti e faticosi, che devono tenere conto anche dei meccanismi di costrizione psichica cui è stata assoggettata la forza lavoro di quest’ultimo ventennio, spesso soffocata in un’antropologia negativa che assale anche le nostre forme di vita. È questo forse il danno più devastante prodotto dal dominio culturale, antropologico, esistenziale del tardo-capitalismo e in Italia ulteriormente accentuato dal ventennio berlusconiano e dall’attuale “quaresima montiana”. Per converso siamo convinti che la storia millenaria di questo Paese e dell’Europa tutta – anche quella mediterranea, bizantina e levantina – è fatta dall’operosità dell’autorganizzazioni di singoli e comunità per vivere in modo felice la propria esistenza individuale e collettiva. Ci piace ripensare il protagonismo delle coalizioni di Blanqui a ridosso del 1848 parigino, le sperimentazioni della Commune, il socialismo municipale, il sindacalismo delle origini, delle prime mutue, quindi la One Big Union degli Wobblies, Industrial Workers of the World, che ci racconta Valerio Evangelisti nel suo ultimo libro (Mondadori, 2011; ma già in Noi saremo tutto del 2004). E in questi mesi di presentazione del nostro libretto in giro per l’Italia ci sembra di aver rintracciato il filo rosso di questa nobile storia: tra centri sociali, circoli Arci, spazi universitari, Palazzo Vecchio a Firenze, Palazzo della Provincia a Rieti, Porta Futuro a Roma, biblioteche, studentati occupati come Puzzle, sempre a Roma, sedi di associazioni, laboratori e gallerie d’arte indipendenti e autonome (come SALE docks a Venezia: http://www.saledocks.org/), etc. C’è una diffusa e duratura capacità di autorganizzazione della società spesso ignorata dalle forze politiche e istituzionali. Con un battuta verrebbe da dire alle istituzioni locali: lasciate che i vostri spazi e le vostre ricchezze (fondi, stanziamenti, etc.) siano redistribuiti a queste esperienze che rendono vivi i territori e le cittadinanze. Che le strutture istituzionali si mettano al servizio di queste cittadinanze che si auto-organizzano: ecco un altro modo per parlare di “nuovo servizio pubblico”, “istituzioni del comune” e riappropriazione della ricchezza, senza scadere nel populismo e nell’antipolitica.

Ho letto recentemente che negli USA ci sono ben 75 teatri abbandonati, pensi che l’esperienza del Teatro Valle Occupato da cui prende le mosse il libro, sia praticabile in altre realtà italiane o all’estero? Pensi che possa essere un modello a cui guardare?

Questa della riattivazione/riutilizzazione degli spazi pubblici, e aperti al pubblico, in dismissione è la grande scommessa che sta dentro l’attuale crisi del capitalismo, che proprio nell’incrocio della bolla immobiliare (tutto nasce dai mutui subprime USA 2007-2008), con quella finanziaria sembra esplodere in quella che potremmo chiamare la “bolla formativa”, compressa tra forza lavoro ultra-scolarizzata (overeducated, direbbero gli stilosi anglofoni), fallimento del “processo di Bologna”, del cosiddetto “3+2”, e aumento delle rette universitarie (lo scorso anno in UK: da noi ci penserà il ministro Profumo e la sua accolita di Professori ordinari seduti al Governo), che causeranno un indebitamento insolvibile delle nuove generazioni. La scommessa è quella di riappropriarsi dei processi di produzione, condivisione e trasmissione dei saperi e delle conoscenze, a partire dalla possibilità di prendersi gli spazi pubblici – della socialità diffusa nei territori – abbandonati e/o alienati dalle istituzioni di governo. A Roma c’era già stata l’esperienza dell’Angelo Mai, collettivo di artisti che aveva occupato una scuola abbandonata nel rione Monti, la mitica Suburra Romana. L’attuale esperienza del Teatro Valle Occupato è una “buona pratica”, un precedente replicabile; ora si potrà dire: “Al Valle è stato fatto così! Perché non qui?!” Una collettività di lavoratori intermittenti dello spettacolo occupa un spazio dismesso dal pubblico (con la chiusura dell’Eti – Ente teatrale italiano), che è il luogo di lavoro degli artisti e dei tecnici dello spettacolo (la loro “fabbrica” dell’immaginario, se fossimo nostalgici della tradizione del movimento operaio) e lo apre alle cittadinanze. Ora sperimenta anche la creazione dal basso di una “Fondazione Teatro Valle Bene Comune” (http://www.teatrovalleoccupato.it/), con la possibilità di renderla riproducibile: si pensano artifici giuridici che permetteranno ad altre fondazioni simili, sparse nel territorio, di “federarsi” con quella del Valle. È un esperimento di creazione di un nuovo diritto non sovrano: lo spazio di invenzione autonoma di regole – dell’autoregolazione – che sfocia nella fondazione di nuove istituzioni, non di nuove leggi. Saint-Just lo diceva già dopo il 1789: “la Rivoluzione non ha bisogno di nuove leggi”, semmai di nuove istituzioni: così esaltava l’autorganizzazione sociale e la sua forza creativa, di nuove forme del vivere associato, oltre lo statalismo e l’individualismo proprietario. Ecco lo spazio di invenzione delle coalizioni sociali che devono tenere dentro tutti quei soggetti irriducibili all’esistente, per affermare una nuova idea di società. Si tratterebbe di cominciare a “federare” le esperienze virtuose delle cittadinanze attive, diffuse nei territori; e da lì partire per pensare e praticare un vivere altrimenti dentro e contro le crisi del capitalismo: sono le occasioni costituenti della crisi. Ma bisognerebbe fare in fretta: dalle città d’Italia, allo spazio politico europeo, per affermare un’altra idea d’Europa e riprendersi il diritto al presente e al futuro! Noi saremo tutto…

GIOACCHINO DE CHIRICO

Parliamo con Gioacchino De Chirico, giornalista ed esperto di comunicazione, delle diverse modalità della creatività nell’era della comunicazione ibrida, del panorama e dello stato di ‘salute’ della creatività romana. “La creatività è essenzialmente un atto sociale. Un atto che ha una radice profonda nella natura umana” spiega De Chirico

Vuole tentare una definizione di creatività?
Il senso dell’atto creativo ha fatto esercitare per secoli il pensiero di filosofi, teologi, critici e intellettuali. Nel nostro caso, lontani dal sacro e dal profano, quello che mi sembra interessante più di tutto è la funzione della creatività per migliorare la condizione di se stessi e degli altri. La creatività è essenzialmente un atto sociale. Un atto che ha una radice profonda nella natura umana. E l’uomo, come è noto, è un animale socievole.

Quali sono gli elementi fondamentali che definiscono l’industria creativa nel settore della comunicazione visiva?
L’aspetto più interessante della comunicazione (visiva) attuale è nello sforzo di (re)inventare se stessa a partire dalla dimensione relazionale, nella società e nel web. È un’attività creativa che accetta che il senso trasmigri dal produttore al fruitore. E non si spaventa per le soluzioni aperte e incomplete. Che cerca contributi in altre forme di espressione e di comunicazione. Che si affida agli utenti nelle attività virali di diffusione. Inoltre va considerato che, per decenni, il senso della vista ha goduto di un privilegio eccessivo rispetto a tutti gli altri. Nulla è sembrato esistere al di fuori della vista. Il tatto, l’olfatto e il gusto sono quasi scomparsi dalla nostra sfera conoscitiva. Poi le cose sono cambiate. La riscoperta dei cibi biologici, del lavoro manuale, dello slow living, del meticciato culturale, del consumo critico hanno riportato al centro dell’attenzione gli altri sensi. Di conseguenza si è riscoperto il valore della relazione: tra i produttori e i loro utenti e tra gli utenti stessi.

Quali sono i valori ‘altri’ che lei collega alla creatività? L’attività culturale, innovativa, ideativa fa bene a ‘cosa’ secondo lei?
C’è chi pensa che la creatività debba essere finalizzata esclusivamente al mercato: innovare i prodotti o i processi produttivi in nome dell’ideologia del profitto. Ma la creatività è molto di più. Può essere finalizzata a una crescita felice e sostenibile. E non è affatto detto che, per questo, sia meno remunerativa. Parafrasando un passo di un bel libro recente di Martha Nussbaum “Non per profitto” (il Mulino): “non dobbiamo essere costretti a scegliere tra una forma di creatività asservita al profitto e un’altra forma di creatività finalizzata alla buona cittadinanza”. La creatività e la cultura servono a costruire identità collettive, a tramandare la loro memoria e a rendere possibile il dialogo con altre realtà. Una società armonica, nei limiti del possibile, è quella che riesce a utilizzare la creatività e la cultura per includere ed equilibrare.

Nella provincia di Roma esiste una “classe creativa”?
E, se sì, ha un profilo peculiare, una serie di caratteristiche che possiamo considerare uniche nel panorama romano?

Io credo che gli stimoli più interessanti si trovino nelle zone di confine. In quelle situazioni in cui si incontrano sensibilità diverse per cultura, provenienza sociale, per consuetudini e stili di vita. Purtroppo a Roma, oggi, rischiano di affermarsi spinte all’esclusione che sono molto lontane dalla natura della città, fatta di mescolanze e di accostamenti non convenzionali. Per fortuna però Roma tende a vivere con scetticismo le “mode” e le “tendenze”. Non sempre ha gettato via il guardaroba della stagione precedente per comprare il nuovo. Ha invece mantenuto piccoli e grandi magazzini di memoria che sono oggi diventati dei giacimenti di simboli e di criteri estetici. In questo Roma è senz’altro una città ineguagliabile. I creativi più liberi e sensibili creano dei felici corto circuiti tra memoria, nuove consonanze, simboli e segni che provengono da luoghi tra loro lontani. Riescono a farlo meglio se vivono all’interno delle situazioni meno codificate che la sociologia può definire “difficili”.

Quali sono, secondo lei, gli indicatori più interessanti dello stato di ‘salute’ della creatività romana?
L’indicatore più forte è dato dalla vivacità di quei soggetti che, di fronte alle difficoltà, si sono messi a cercare i loro pubblici. Non si sono limitati a produrre, ma hanno cercato dialogo e relazioni. In pratica hanno reso conseguenti anni di ragionamenti sulle modalità di fruizione della cultura e della creatività. Ci ricordiamo quando si criticavano gli spazi canonici e sacri della fruizione culturale? Bene oggi che vogliono chiudere i cinema, i teatri, le librerie e i musei perché “non danno da mangiare”, i creativi e i produttori di cultura provano a far diventare tutti gli spazi urbani teatro, libreria, museo e cinema. Non aspettano che il pubblico vada da loro ma, al contrario, vanno loro dal pubblico. Non solo, sempre più spesso si assumono anche il compito del formatore. Non solo “spettacolo” ma partecipazione e condivisione, insegnamento e scambio. Nella comunicazione è interessante vedere come gli strumenti unidirezionali come il marketing e l’advertising stiano lasciando il passo ad altre forme più complesse ed efficaci di espressione e di promozione. Queste forme attingono all’arte contemporanea e diventano anche comunicazione. Escono dagli spazi canonici della pubblicità in strada o sui giornali per diventare performance.

A che cosa dovrebbero portare (o hanno portato) gli investimenti fatti e da fare in campo creativo?
Certamente a facilitare il circuito della conoscenza e della condivisione. Produzione, formazione, fruizione devono poter essere percepiti per quello che sono: un ambito unico già interno alla società. Il mercato è un elemento di questo agire sociale che deve sottostare alle regole della società e non determinarle. Chi produce, in qualsiasi ambito, deve poter uscire dalla logica del “make and sell” e capire quanto siano importanti i contesti, le atmosfere, le community e i simboli. In questo modo anche aziende apparentemente lontane dalle logiche “creative” potranno trovare nuovi principi identitari, dialogare con i loro pubblici in modo corretto e produrre ricchezza per sé e per la società.

Esiste un caso estero o italiano di “trattamento” riservato alla classe creativa a cui dobbiamo guardare con successo?
Se si valorizza la mistura delle caratteristiche dei diversi ambienti, non ha senso cercare dei modelli. Ognuno è modello di se stesso. Molto però può fare la pubblica amministrazione per favorire la nascita dei presidi sul territorio, gli scambi e gli incontri. Abbassare o abbattere le barriere fiscali per la cultura e la creatività. Aiutare le nuove esperienze nella fase di start up. Ma, soprattutto, iniziare a impegnarsi di nuovo per la crescita della domanda di cultura e creatività, in qualità e quantità.

Esiste un’esperienza che considera esemplare per le sue competenze e capacità? Quale?
Più che una singola esperienza, mi sembrano interessanti i molti fermenti dal basso che si registrano in diversi campi della vita quotidiana. Per i consumi alimentari sono nati a decine i GAS, Gruppi di Acquisto Solidale. In ambito editoriale i gruppi di lettura. Per gli spettacoli dal vivo penso alla qualità degli artisti di strada. Penso alle attività virali e di guerrilla che si sposano e si confondono con le performance artistiche, i flash mob, le mobilitazioni civili, la comunicazione non convenzionale in genere. È come se l’estro creativo delle persone, giovani ma non solo, sia stato riacceso dalla riscoperta della dimensione sociale della vita quotidiana.

Gioacchino De Chirico esperto in comunicazione, è consulente di aziende ed enti pubblici e privati oltre che ideatore e organizzatore di eventi. Giornalista, collabora con il servizio cultura del Corriere della sera, edizione romana. In qualità di autore e di conduttore ha collaborato con radio, televisione e diversi quotidiani. È docente universitario a contratto presso l’Università del Molise, ha ideato e dirige corsi di alta formazione e insegna in master e corsi per aziende e Istituti, pubblici e privati. Socio Ferpi, ha diretto società di comunicazione di cui è stato anche amministratore delegato. È autore di articoli, saggi e dispense su argomenti di comunicazione e sul tema dell’organizzazione e ideazione di eventi. In particolare, si occupa di editoria, arte, cultura e di comunicazione non convenzionale.

MONICA SCANU

La città, il territorio e la creatività, Monica Scanu riflette sul legame e sul rapporto tra questi elementi. Un flusso di pensieri e di opere che negli ultimi anni lavora “sulla” città ma anche “con” la città, con un continuo e florido scambio intellettuale.

Vuole tentare una definizione di creatività?
Io trovo che il termine creatività sia oggi abusato e quindi un po’ logoro. E questo in un paese che ha circa 160.000 diversi lemmi da utilizzare, secondo l’austero Grande Dizionario della Lingua Italiana di Salvatore Battaglia. Parlerei piuttosto di una capacità di visione e di connessione, di un’altra energia, di una attitudine a risolvere i problemi e gli stati di crisi con approcci multidisciplinari.
Quali sono gli elementi fondamentali che definiscono l’industria creativa nel settore che lei ha approfondito?
A mio avviso l’elemento fondamentale è “saper nuotare”. Ovvero imparare a governare le situazioni difficili imparando o meglio inventando le tecniche di sopravvivenza più adatte, e adattando gli strumenti noti e a disposizione alle nuove situazioni. E poi elementi fondamentali sono quelli che ho disegnato nel primo scenario di architettura e design per RomaCreativa: un grande impegno, l’organizzazione, l’operare in più campi – dal progetto all’intervento artistico, l’investire in ricerca e formazione.

Quali sono i valori “altri” che lei collega alla creatività? L’attività culturale, innovativa, ideativa fa bene a “cosa” secondo lei?
Se vogliamo parlare di “fare bene a qualcosa o a qualcuno” certamente ogni attività intellettuale con caratteristiche di novità e di energia è indispensabile per la crescita e l’evoluzione delle persone e delle collettività. A mio modo di vedere la creatività, come sopra definita, ovvero l’energia creativa è l’ossigeno nella vita delle persone.

Nella provincia di Roma esiste una “classe creativa”? E, se sì, ha un profilo peculiare, una serie di caratteristiche che possiamo considerare uniche nel panorama romano?
Facendo riferimento alla definizione di
Richard Florida sicuramente esiste, come dimostrato anche dalle ricerche sviluppate in Italia dallo stesso Florida. La classe creativa romana, in cui per romana intendo la grande area metropolitana costituita dalla città e dal suo territorio provinciale, è profondamente permeata e condizionata dall’esperienza quotidiana di vivere qui, in quest’ambiente culturale scenografico e appassionante, ma anche pigro e molto legato ai tempi e ai modi della politica. La sua unicità è data dal fatto che se vivi e studi in questa città, il pensiero e l’attività progettuale diventano il frutto, il condensato o l’astrazione di quello che abbiamo attorno. E poi ci sono le capacità creative e artigianali nel settore del costume, ad esempio, dell’industria vicina al cinema e alla televisione, che sono una caratteristica tutta romana. Un altro grande atout è quello di ospitare la più grande comunità intellettuale internazionale rappresentata dai borsisti e dagli studiosi ospitati nelle accademie e negli istituti di cultura stranieri a Roma: un flusso di pensieri e di opere che negli ultimi anni lavora “sulla” città ma anche “con” la città, con un continuo e florido scambio intellettuale.
Quali sono secondo lei gli indicatori più interessanti dello stato di “salute” della creatività romana?
I numeri di giovani professionisti che si affacciano al mondo del lavoro, di artisti, di operatori culturali. La presenza di iniziative non originali ma proposte per la prima volta a Roma come (re)load di
Gian Maria Tosatti che si concluderà a marzo 2011. Un modello di progetto culturale incentrato su arte, teatro e architettura contemporanea limitato nel tempo che trova collocazione fisica in spazi momentaneamente non utilizzati, come il deposito ricambi di un negozio di automobili al Pigneto utilizzato per l’edizione romana. Una voglia di creare occasioni di scambio culturali, di mettere insieme competenza e profili diversi, di sperimentare nuovi modelli per operare sui territori.
A che cosa dovrebbero portare (o hanno portato) gli investimenti fatti e da fare in campo creativo?
Mi sembra che in particolare da alcune istituzioni siano stati fatti interventi efficaci in questo ambito, interventi finalizzati a creare delle reti, a far conoscere e comunicare le realtà creative del territorio, a stimolare il dibattito culturale sul tema. Quello che andrebbe fatto è supportare con investimenti: innanzitutto le realtà creative che non sono autonome - penso ad esempio ai piccoli artigiani e ai designer auto produttori presenti sul territorio che vanno sostenuti e aiutati a mantenere le loro sedi lavorative nel centro storico e nei quartieri; poi le iniziative che mettono in moto le idee, gli operatori pubblici e privati, i luoghi dell’area metropolitana; e soprattutto la formazione, attivando e creando corsi brevi e professionalizzanti (efficace si rivelò ad esempio il modello dei diplomi universitari in Disegno Industriale) al livello medio, e scuole-botteghe al livello più alto per formare una nuova classe di persone con capacità di visione e skills specifiche in settori creativi.

Esiste un caso estero o italiano di “trattamento” riservato alla classe creativa a cui dobbiamo guardare con successo?
Io guardo con molto interesse ad alcuni “luoghi” in cui si sviluppa la creatività in Italia e all’estero: come ad esempio la
Fondazione Forma per la Fotografia di Milano che è diventata la Casa della Fotografia in Italia. È interessante innanzitutto per gli operatori coinvolti: Contrasto, la Fondazione Corriere della Sera e l’Azienda Trasporti Milanese. Poi per il luogo: si tratta di una ala ristrutturata del deposito dei tram del quartiere Ticinese di recente trasformata in piattaforma culturale. E soprattutto per le funzioni: un programma culturale incentrato sulla fotografia che si avvale di un grande spazio ad essa dedicato con varie aree espositive, di spazi per proiezioni, dibattiti ed attività didattiche, di una libreria specializzata, di una galleria per opere destinate alla vendita e di un ristorante. Oppure un altro esempio più destrutturato come lo Studio 427 collocato in una ex fabbrica di gazzose in una zona degradata della città di Palermo, nato da una idea di Alfred Von Escher: si tratta di un luogo pensato per il lavoro e per la realizzazione di progetti, di una officina e una falegnameria di restauro e produzione, uno spazio di co-working per progettare e realizzare opere e installazioni di arte contemporanea e design, e anche come luogo di prova per il teatro. O ad altri esempi storici come la Friche di Marsiglia o il Chantier 109 di Nizza (la riqualificazione dell’ex mattatoio).
Esiste una esperienza che considera esemplare per le sue competenze e capacità? Quale?
Ne esistono almeno due. Mi riferisco innanzitutto all’esperienza formativa sviluppata con la scuola
Domus Academy di Milano e con l’IRFI, Azienda Speciale della Camera di Commercio di Roma, il Master in Cultural Experience Design and Management. Un master di design incentrato sull’esperienza culturale e turistica a Roma sviluppato con un metodo meta-progettuale e multidisciplinare, che ha visto nei suoi due anni di vita partecipanti per lo più stranieri e con differenti background culturali. Probabilmente un progetto ambizioso e sviluppato in tempi non maturi, ma nel quale erano già presenti in nuce quelli che dovrebbero essere gli elementi degli ambienti in cui si sviluppa la capacità di visione e di connessione. La seconda è stata quella sviluppata durante il mio anno di collaborazione con l’ex Assessore alle Politiche Culturali e della Comunicazione Umberto Croppi, persona con una grande capacità di visione e di immaginare scenari: un periodo in cui alla luce delle caratteristiche della città e del più generale stato di crisi sono stati fatti grandi interventi in ambito culturale innescando circoli virtuosi fra le istituzioni, gli operatori, gli sponsor e  utilizzando come volano fra gli altri l’arte e l’architettura contemporanee.

Monica Scanu, architetto, si occupa di experience design e architettura. Tra il 2007 e il 2009 è direttore a Roma del Master in Cultural Experience Design and Management di Domus Academy e IRFI, un’iniziativa formativa incentrata sull’experience design e sulla città di Roma, organizzata da Domus Academy e IRFI, azienda speciale della Camera di Commercio di Roma. È stata docente presso il Corso di Laurea di Disegno Industriale alla Seconda Facoltà di Architettura Ludovico Quaroni di Roma e, fino al 2009, presso il Design Culture and Management Program al Bilgi University di Istanbul. Nella capitale turca ha inoltre organizzato, in collaborazione con l’azienda Moleskine, il progetto Detour My Detour. Dal 2010 fa parte dello staff dell’Assessore alle Politiche Culturali e della Comunicazione del Comune di Roma, Umberto Croppi. Coordina il progetto Cultura Internazionale a Roma, piattaforma di collaborazione nell’ambito di progetti culturali fra il Comune di Roma, le Accademie e gli istituti di Cultura stranieri a Roma. Nel 2009 ha fatto parte della giuria del Premio Cavalierato Giovanile e del Concorso di idee per prodotti di merchandising museale indetto da Zètema. Fa parte della redazione della rivista DIID, Disegno Industriale Industrial Design, ed è stata co-direttore del magazine 7thFLOOR. Sempre nel 2009 ha collaborato alla direzione artistica di FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma. Ha partecipato con la Venice International University e lo IUAV di Venezia a un progetto inserito nel programma della prossima Biennale di Architettura. Ha curato, insieme ad Andrea Granelli, il volume “(re)design del territorio. Design e nuove tecnologie per lo sviluppo economico dei beni culturali” pubblicato da Fondazione Valore Italia. Di recente nomina la sua collaborazione con l’ufficio “Città Storica di Roma Capitale”, Assessorato all’Urbanistica.

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